«Se fra cinquanta, o cento anni degli storici vedranno le registrazioni settimanali di tutti e tre i nostri network, si ritroveranno di fronte a immagini in bianco e nero o a colori, prova della decadenza, della vacuità e dell’isolamento dalla realtà del mondo in cui viviamo».
Con questa frase, presa a prestito dal giornalista statunitense Edward R. Murrow che aveva sconfitto la censura del senatore McCarthy e inserita nel programma di sala dello spettacolo, vogliamo introdurre qualche nota su Frost/Nixon, lo spettacolo di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani passato – dopo il debutto milanese al loro Teatro Elfo Puccini nell’ottobre 2013 – all’Argentina di Roma e ancora in scena fino al 30 maggio. Compito e impassibile uno, dandy ed eccessivo l’altro, ben incarnato dall’istrionico ma mai sopra le righe Bruni, la figura dell’integerrimo anchorman della CBS ha poco a che fare con quella di David Frost ritratta dall’autore britannico Peter Morgan nella sua geniale docu-fiction teatrale, successo di Broadway già portato sul grande schermo (2008, regia di Ron Howard).
Conduttore di talk show sulla cresta dell’onda, Frost va in cerca dello scoop senza precedenti: intervistare Richard Nixon, che nel 1974 era stato il primo presidente degli Stati Uniti a dimettersi dall’incarico, in seguito a quello che sarebbe passato alla storia come lo “scandalo Watergate”, in cui il Presidente e il suo staff avevano di proposito occultato intercettazioni e distrutto documenti per insabbiare l’accaduto e nascondere così un inaudito giro di denaro e corruzione che, implicando finanche CIA e FBI, trasformava il Comitato per la rielezione di Nixon in uno strumento di sabotaggio per l’opposizione. Solo nel 1977 l’ex presidente accettava di lasciarsi intervistare da Frost, in cambio di più di mezzo milione di dollari. La serie di botta e risposta trasmessa poi dai maggiori network nordamericani mostrava in diretta la caduta di un leone: per la prima volta dall’inizio dello scandalo, con lo sguardo puntato in camera Nixon confessava le proprie colpe.
Il testo di Morgan ripercorre le tappe della preparazione delle interviste e di queste ricostruisce estratti salienti, tra la visibile difficoltà strategiche e tattiche di Frost e del suo staff nell’espugnare le granitiche difese dell’avversario, e si concentra molto sulle personalità dei due, un drogato di successo e un drogato di potere, due famiglie di animali che, alla fine di tutto, si scopriranno essere strettamente imparentate. A governare, appare chiaro dalla precisissima drammaturgia e in particolare dalla lunga telefonata intima che Nixon e Frost si scambiano prima dello “scontro finale”, è una mordente ossessione per il successo, per la supremazia, per il controllo. Ma le luci della ribalta brilleranno solo su uno dei due. Di questa parabola offerta da Morgan il pubblico conosce bene l’epilogo, individua da subito il vinto (perché in guerra non vi sono vincitori), il gioco scenico è tutto puntato all’unione graduale di quelle che a una prima occhiata paiono due nature umane opposte.
Il lavoro di Bruni e De Capitani, come sempre fulgido di una pulizia e di un’essenzialità elisabettiane in grado di animare il palco con grande inventiva grazie al ritmo e alla recitazione tagliati col coltello, si lascia apprezzare per la capacità di trovare a una vicenda apparentemente lontana da noi una forte aderenza all’attualità non solo e non tanto politica, ma piuttosto umana. Quanti di noi, dopo vent’anni, si sono posti la candida domanda: «Quello è ricco sfondato, potente, ha cambiato la storia d’Italia. Ma chi gliela fa fare a continuare ancora? Perché semplicemente non accetta la sconfitta e si accontenta di quello che ha ottenuto?».
La risposta sta chiusa proprio nei termini di questo apologo di Peter Morgan. La compagnia milanese riesce a mettere sul palco un netto ragionamento su due capisaldi della nostra (e nostra vuol dire italiana, vuol dire europea, vuol dire mondiale) attuale situazione politica: la democrazia e il potere mediatico. Che gli Stati Uniti, pur nella loro storia così giovane, siano la democrazia più antica del mondo moderno è un fatto. Nell’alternanza obbligata (mai più di due mandati per lo stesso presidente) sta la chiave di una possibilità di rappresentare il popolo. E però dall’altra parte la possibilità di mistificare e manipolare l’informazione privata o pubblica azzera l’integrità di quel valore, allarga le maglie della libertà democratica distorcendo la realtà dei suoi principi. In un momento simile a quando Achille uccide Ettore, Frost riesce a mettere in scacco Nixon con questo botta e risposta: «Sta dicendo che, per un presunto buon fine, un Presidente è autorizzato a servirsi di metodi illegali?». «Sto dicendo che, se li usa il Presidente, quei metodi non sono illegali». Ecco calata la pietra sullo stomaco. Ed ecco, in fondo, trovata una risposta a quella domanda che ci stiamo ponendo, ecco dove sta la sete del potere, democratico o oligarchico che sia.
C’è poi l’ansia di apparire, di mostrarsi, di realizzare lo scoop, ben resa dallo spettacolo che sul palco ricostruisce con pochi elementi di scena (poltrone e televisori, bel riferimento alla sedentarietà della TV) e luci un ambiente eternamente staccato dalla realtà, una sorta di dinamico e accattivante set televisivo che ci dice che ogni vittoria è una vittoria apparente. Di certo la sconfitta di Nixon rappresenta un precedente che mette in guardia tutte le democrazie. Ma i mezzi incaricati di comunicare alla massa questi livelli di guardia sono anch’essi a rischio di totale manipolazione. Da parte di chi li emana, certo, ma anche della responsabilità di chi li riceve. E allora, «Buonanotte. E buona fortuna».
Sergio Lo Gatto