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Emma Dante: i vivi, i morti - Art Spettacoli
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Emma Dante: i vivi, i morti

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Questa rubrica, ultimamente, vi racconta spettacoli che da Bologna non sono passati e che non passeranno a breve termine. Occasioni mancate. Emma Dante, con la sua compagnia Sud Costa Occidentale, veniva al teatro delle Celebrazioni, quando questo, grazie a Mariangela Pitturru, si era aperto a guardare timidamente oltre i comici e lo spettacolo di intrattenimento. Ora è scomparsa dalle programmazioni cittadine. Peccato, perché Le sorelle Macaluso, in scena in zona per due sere soltanto al teatro Ariosto di Reggio Emilia (e in tournée nelle principali città italiane, da Napoli a Roma, Palermo, Torino e Milano, e poi all’estero) è uno spettacolo molto bello.

L’ho visto seduto nelle prime file di platea, tra signore e signori che potremmo definire “abbonati classici”. Qualche sedia era vuota (anche se il teatro dichiarava il ”tutto esaurito”), per defezioni di aficionados della stagione che non avevano voluto rischiare con questo spettacolo. Le mie vicine parlavano di parrucchiere, ma anche di spettacoli visti e da vedere, con particolari apprezzamenti per un’operetta. Un signore con i capelli grigi decretava: “Mah, chissà come sarà questa Emma Dante. Ha fatto una Carmen strana alla Scala. Però non si può criticare a priori: bisogna guardare”.

Quando inizia lo spettacolo, con la sua processione di ombre nere che avanzano dal fondo verso quattro o cinque lapidi di latta in proscenio (o ex voto, o scudi), con un crocefisso esibito in alto, gruppo compatto che si sfalda per il mancamento momentaneo di qualcuno, che genera poi, per un lampo di tempo, una forsennata battaglia di pupi palermitani umani, con scudi e spada, per trasformarsi in una famigliare con gita delle sorelle al mare, pronte a schierarsi in proscenio, a togliersi gli abiti maschili scuri e a rivelare costumi interi coloratissimi, a diventare dialoghi in siciliano stretto, con una delle ragazze che invece parla un dialetto barese altrettanto stretto, e sberleffa le altre, dà manate nel sesso di una e fischia, in tutto questo nella platea (nelle prime file, dico, quelle degli abbonati) sembra calato un silenzio che può anche essere gelo, condito dei soliti colpi di tosse.

Lo spettacolo si rivela a poco a poco, e cattura sempre di più. Sembra incrociare le ispirazioni più felici della regista palermitana, il gruppo familiare schierato in proscenio di mPalermu, immobilizzato in una scena da Angelo sterminatore di Buñuel, e Vita Mia, quella frenetica cerimonia funebre di una madre che non accetta la morte del figlio. Qui, tra racconti, scherzi, scene di felicità e (piccola o grande) violenza familiare davanti al mare che ricordano quelle del film Via Castellana Bandiera, a poco a poco tra i vivi si insinuano i morti, la sorella affogata, i complessi di colpa di quella cui è stata attribuita la responsabilità, poi il figlio di una sorella morto perché trascurato dalla madre, secondo l’accusa della Macaluso emarginata e chiusa in istituto, quella che parla il dialetto diverso, la colpevole dell’affogamento, la “cicciona”, la più esuberante. Ritornano a vivere il padre seduttore e miserabile e la madre, defunti, e infine la sorella più vecchia, che per tutta la vita ha campato da morta, di sacrifici, rinunciando al sogno infantile di danzare, e che solo nella fine indossa il sempre desiderato tutù.

Il ritratto di una certa Palermo arcaica, dialettale, oleografica e folkloristica se volete, o trash alla Ciprì e Maresco (ma qui sono quasi tutti magri e scattanti), si trasforma in un rito che incrocia la vita e la morte, che ci fa sentire presenti i trapassati, la loro vecchia fatica di vivere, la loro miseria, il loro duro tirare a campare. La regista abbandona l’innovazione del film, di provare a contrappore due mondi, quello “antropologico” e quello borghese, e torna a concentrarsi su uno spaccato apparentemente omogeneo di vite che rivela i colori, spesso cruenti, di una diversità marginale di destini che confina con l’infelicità e il tormento, anche nei plotoni consanguinei più affiatati.

Quando alla fine capiamo chiaramente che i personaggi vivi sono quelli vestiti in grigio-nero e i morti in abiti colorati, sgargianti, segnati dal desiderio raggiunto anche solo per un attimo, la tavolozza di vita e morte, di ragioni e egoismi, di rinuncia e bisogno è delineata perfettamente. Con sguardo autoptico e emozione, in uno spettacolo che aggiunge un importante tassello alla maturità di questa artista, nonostante i successi riservata se non isolata.

E gli abbonati? Solo un paio avevano abbandonato (con fragore) la sala. I colpi di tosse a un certo momento erano per incanto terminati. Alla fine applaudivano entusiasti (mi sembrava). Solo le signore davanti a me, in prima fila, ripetevano: però, quel profumo che si dava il padre, che puzza! Avevano ragione. Ed era rimasta l’unica distanza tra la civile, culturalizzata Emilia, e quella Palermo sottoproletaria, esibizionista e tragica, dell’anima.

corriere.it






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