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Un borghese piccolo piccolo - Mario Monicelli - Art Spettacoli
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Un borghese piccolo piccolo – Mario Monicelli

Un volto gonfio, capelli grigi tirati all’indietro; due occhi grandi, a palla, sgranati dall’orrore. Giovanni Vivaldi è a terra, con la testa del figlio stretta tra le mani, il fiato corto, tirato, di chi non sa cosa pensare: un commando di uomini armati ha appena aperto il fuoco; hanno ucciso una sola persona, Mario, il suo adorato primogenito. E lui se ne sta lì, incapace di spiaccicare una parola. Silenzio – un silenzio che pesa, un silenzio che fa riflettere. Nella borghesia, la summa di un’epoca: quella dominata dalla Democrazia Cristiana, quella in cui un uomo era partigiano solo nei ricordi; in cui la Massoneria era l’unico aiuto disponibile per l’uomo della strada.

Un borghese piccolo piccolo, film di Mario Monicelli tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, è – non ci sono altri termini per definirlo – un capolavoro. E non perché sia perfetto. Assolutamente. Ma proprio perché è impreciso, perché è umano; perché Sordi, nel suo ruolo, regala emozioni autentiche, senza mai strafare. C’è una storia che dribbla di continuo tra l’assurdo ed il reale, tra il sofferto ed il vissuto, in cui gli apici sono tanti, gli interpreti si aiutano e i primi piani spiegano, raccontano e non sono solo pretesti del regista. La sceneggiatura, rielaborata dallo stesso Monicelli, è forte del soggetto di Cerami: descrivere come ha fatto lo scrittore persone, sensazioni, storie e risvolti senza mai scadere nel banale è difficile, un’impresa titanica.

Ma Un borghese piccolo piccolo, riproposto in un dignitoso bianco e nero, non convince solo per il cast e per la storia, per un Monicelli saggio e onnipresente, ma pure per il sottinteso, quello che dice attraverso le immagini e le battute. La sofferenza di Giovanni Vivaldi – di perdere un figlio, di vedere una moglie impazzire, di ostinarsi a tirare a campare – è la sofferenza dell’uomo comune, del cittadino medio; e la sua trasformazione, quasi stevensoniana, alla Jekyll e Hyde, è la conclusione ideale di tutta un’epoca, il sinonimo della borghesia che da classe dominante diventa classe dominata, della mediocrità che ancora una volta si impone; l’emblema della violenza, unica valvola di sfogo per il cittadino che dismette i panni della vittima e si autoelegge giudice, carnefice e giuria. La giustizia ai tempi, ancora, della vendetta.






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