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Grand Budapest Hotel

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Questo non è un film esteticamente curato, è l’estetica portata all’esasperazione. Più che una visione, si può parlare di un’esperienza, una stimolazione mentale ininterrotta che per un’ora e mezza porta lo spettatore all’estasi e lo mantiene in questo stato di godimento totale. Il piacere della visione è dato essenzialmente da tre fattori.

Il primo è il movimento, il dinamismo che attraversa gli avvenimenti dal primo all’ultimo minuto. La storia di Gustave H (Ralph Fiennes) e Zero (Tony Revolori) si sviluppa intorno a dinamismi continui: dalle corse del giovane Zero nel Grand Budapest, agli inseguimenti su sci o slittini improvvisati a velocità supersoniche, passando per il percorso ingarbugliato della fuga dal carcere (siamo qui molto vicini allo slapstick), l’inseguimento di Agatha da parte di Dmitri (Adrien Brody), quello dell’esecutore testamentario Kovacs (Jeff Goldblum) da parte del vampiresco J.G. Jopling (Willem Dafoe). A questo dinamismo fisico dei personaggi, si combina con effetti dirompenti una verbosità a tratti impetuosa (ad esempio nel caso di Gustave H); il film non contempla quasi scene statiche, come non contempla scene silenziose, le parole dei personaggi sgorgano sovrabbondanti e ci travolgono. Il gioco di ridondanza delle parole si vede chiaramente quando i monaci continuano a ripetere «È lei il signor Gustave H eccetera … ?», o nel giro di telefonate che vede coinvolti sei diversi hotel, nei quali ogni direttore ripete sempre le medesime parole a garzoni che puntualmente li imitano pedissequamente nel lavoro (i più diversi) che stavano svolgendo.

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Il ritmo delle azioni e quello delle parole si intrecciano e spesso si sovrappongono, con risultati spettacolari. La ritmicità è poi fortemente corroborata dalla deformazione evidente della realtà e della logica verbale. Quello di Grand Budapest Hotel è un mondo irreale, portato all’eccesso: vediamo scale a pioli lunghe decine di metri, hotel costruiti a strapiombo sul vuoto, cabine del telefono nel bel mezzo di lande ghiacciate; ma più che una deformazione oggettiva, è la consequenzialità di fatti e scelte personali ad essere fortemente alterata in senso semplificante e grottesco. Le azioni dei personaggi seguono una logica malata che non è ha nulla da spartire con il realismo. L’ereditiere Dmitri e il suo killer Jopling ad esempio perseguono una condotta inspiegabilmente violenta, priva del benché minimo scrupolo, e tutto per un solo dipinto, in un’eredità sterminata. Le uccisioni si susseguono senza alcun risvolto tragico e senza che le forze dell’ordine intervengano: la polizia si fa viva solo per arrestare l’innocente Gustave. Le dinamiche dei fatti sono totalmente tendenziose e finalizzate allo spettacolo: la pellicola viaggia su binari paralleli alla realtà, segue logiche tutte sue, meravigliosamente irreali. Un esempio su tutti: la volontà spettacolare di Anderson si palesa con massima forza nel finale, in cui i fatti tragici della vita di Mr. Zero sono amputati di netto dal contesto visuale dell’intreccio e viene riservato loro solo un brevissimo commento verbale. Anche la morte di Gustave è sminuita, esposta sbrigativamente: la realtà viene continuamente sezionata a piacere e riplasmata dall’occhio galvanizzato del regista.

Il secondo elemento che amplifica esponenzialmente il piacere visivo è dato da un gusto estetico soverchiante che codifica ogni singola scena del film. Non esistono momenti in cui la messa in scena sia trascurata o anche semplicemente “normale”: Wes Anderson è ossessionato dalla perfezione geometrica delle immagini, dei movimenti, delle scenografie. I campo/controcampo dei dialoghi sono perfettamente ortogonali, i personaggi sono quasi sempre inquadrati in primi piani intensi e pulitissimi, i movimenti seguono linee rette o curve regolari; le scenografie ornano con gusto barocco gli intrecci e trionfano per magniloquenza. C’è del feticismo nella bellezza maniacale di ogni oggetto, nella rifinitura di ogni dettaglio scenico, dai cartigli del testamento di Madame Céline Villeneuve Desgoffe-und-Taxis (Tilda Swinton), ai pacchetti preziosi dei dolci fatti da Agatha, alla varietà infinita di baffi che ornano i visi dei protagonisti, al gusto cromatico di costumi e arredi. Ogni hotel ha un suo colore, ogni ambiente porta all’estremo le sue caratteristiche e le esprime principalmente con scelte cromatiche: la casa dei Desgoffe-und-Taxis è cupa e nerissima, l’ascensore rosso di tensione e fretta, l’eremo dei monaci bianchissimo, i soldati quasi totalmente neri o grigi, il Grand Budapest, nella sua progressiva decadenza, passa da una gamma di colori accesi tra il violetto e il rosso ad un ben più triste e pacchiano arancione. Il protagonista Gustave esprime la sua raffinatezza superiore con un vestiario impeccabile e il desiderio di avere il suo profumo preferito anche durante la fuga dal carcere.

In questo armamentario estetico impressionante, ciò che rischia di venir schiacciato è il plot vero e proprio. La vicenda in sé non è particolarmente significativa; il dissidio tra Gustave e Dmitri per l’eredità della madre di quest’ultimo si sviluppa secondo una trafila abbastanza semplice, almeno nelle sue istanze generali. Le scelte e le azioni seguono però, come dicevo, logiche abbastanza assurde e quindi si percorrono quasi sempre le vie meno logiche e sagge: Dmitri fa uccidere una serie di persone innocenti per arrivare a Gustave e al dipinto, che a sua volta decide di fuggire di prigione con una banda di uomini ben poco raccomandabili. L’unico filone “serio” di questa vicenda è quelle legato a Serge e alle volontà ultime della signora Céline, ma anche questo si risolve per caso, quando Agatha e Zero stanno per cadere da una finestra e trovano la lettera della defunta. Lo scioglimento delle vicende è quindi immediato e fin troppo facile: la donna, in caso di morte per assassinio, aveva deciso di lasciare tutto a Gustave, che quindi diventa multimilionario. Ma non mi è perfettamente chiaro come sia stato appurato che la morte sia stata commissionata dal figlio Dmitri. Anche questo però fa parte del gusto grottesco e caricaturale del film, che se ne frega bellamente di spiegare le cose e anzi si esalta nella scarsa tenuta logica di alcuni passaggi.

In ultimo, alcune sovrastrutture mi sono risultate superflue: ad esempio, il gioco di scatole cinesi per cui assistiamo inizialmente a 4 o 5 salti temporali è simpatico ma non così ben sfruttato, se in chiusura di film i passaggi inversi fino al ritorno al presente sono seguiti senza grandi sviluppi intermedi. La complicazione diegetica è gratuita e asservita alla volontà di dare un ritmo fittissimo e variegato alle immagini, come a quella di complicare irrazionalmente gli intrecci, salvo poi risolverli con disarmante semplicità. Anche la divisioni in capitoli non è particolarmente riuscita, ma non va di certo ad intaccare il valore dell’opera.

In questo spettacolare contesto, i significati del film che vadano al di là del puro gusto artistico sono di difficile individuazione. Uno dei passaggi più belli è legato alla confessione dell’anziano Mr. Zero che rivela allo scrittore il motivo per cui ha deciso di riscattare un vecchio Hotel decadente, mettendo in crisi le sue finanze (ereditate da Gustave): lo ha fatto per Agatha, perché all’Hotel ha vissuto con lei dei momenti felici, anche se sono durati poco.

Un secondo significato è legato alla trasmissione di valori e di storie: la personalità di Gustave arriva fino alla bambina di oggi, che legge il libro dello scrittore il quale si è fatto raccontare tutta la vicenda dall’anziano Zero, un tempo apprendista del buon Gustave. Nell’aleatorietà divertente ma in fondo minacciosa del reale, la possibilità di perpetuare dei valori tramite rapporti personali o tramite il racconto differito di storie è uno spiraglio di luce che non può essere sottomesso al caos ingovernabile della vita.

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