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Emma Dante verso Medea, tra sangue e poesia - Art Spettacoli
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Emma Dante verso Medea, tra sangue e poesia

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431 anni prima della nascita di Cristo debuttava la leggendaria Medea di Euripide, destinata – se non a vincere le Grandi Dionisie (scavalcata da Sofocle) – a passare nei secoli come una delle tragedie simbolo dell’Atene di Pericle, in quel V secolo che avrebbe dato fondamento alla politica democratica e alle arti, una su tutte il teatro.
La storia della sposa rifiutata ed esule che punirà il marito adultero Giasone uccidendone la nuova moglie e i figli vanta centinaia di adattamenti; vi si aggiunge ora un secondo tentativo di Emma Dante (un primo fu prodotto nel 2003 dallo Stabile di Napoli), con Verso Medea, presentato al Festival di Villa Adriana a Tivoli. Le rovine della sontuosa residenza dell’imperatore suggestiva e prestigiosa – anche arena estiva dell’Auditorium Parco della Musica di Roma – non negano una cornice perfetta a rievocare il mito, ma su di esso si innesta un linguaggio forte come quello della Dante. Sulla scena vuota si fanno avanti i fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso, musicisti e polistrumentisti tradizionali siciliani famosi in tutto il mondo che si occuperanno di realizzare dal vivo una colonna sonora bastante da sola a giustificare l’intero spettacolo. Fronte al pubblico, stretti in un abbraccio, regalano una sorta di prologo cantato, dividendo le voci in intervalli di terza e quinta, prima di posizionarsi a un attrezzatissimo angolo del palco, da dove accompagneranno il tutto con grazia e potenza, cellula di racconto esterna e però fondamentale.

Il codice della regista palermitana – arrotondato dalle belle luci di Marcello D’Agostino – non tarda a manifestarsi, raccogliendo cinque attori in gonna nera in una fila frontale e creando così il coro delle donne corinzie, che in realtà sono uomini. Uno di loro racconta il sogno ricorrente di essere in dolce attesa, ma l’evidenza è che solo Medea, a tutti gli effetti unica donna in scena, può dare una discendenza alla sterile Corinto. Sull’abito nero della protagonista, interpretata con energia non sempre costante da Elena Borgogni, si distinguono due macchie di colore all’altezza del seno, rotte in fili di ricamo che sembrano zampilli di sangue da una ferita. La sua è una Medea dal corpo esasperato, attraversato da scariche di energia elettrica come in una invincibile possessione demoniaca. Basta una cuffia nera in testa e un gilet di paillettes a far spuntare Creonte e Giasone dal coro delle donne, insieme al cambio repentino del parlato da uno stretto dialetto siculo e partenopeo a una soffiata impostazione della voce.

Se però nelle scene di gruppo, in cui il ritmo delle sillabe e la consueta tensione muscolare tempestata di gesti-chiave e accenti scandiscono la musica della narrazione oscillando con sapienza tra un’isterica vena ironica e svisate di racconto sanguigno, i dialoghi tra Medea e Giasone, dove si allarga il respiro del tono tragico, appaiono più scollati e meno carichi di inventiva. Quella di mandare i due attori a esplorare il registro lirico, che potrebbe sembrare una scelta volutamente ironica, non riesce tuttavia a imporre la sua potenza, rischiando di rallentare troppo alcuni passaggi e di creare un effetto di straniante separazione dal personaggio proprio in un lavoro così votato alla densità del gioco tra attore e maschera. Nonostante i consueti lampi di genio dati da un uso essenziale e carnale dello spazio e degli oggetti (la trapunta del parto che in un gesto repentino si trasforma nel neonato da cullare), in più di una sequenza il talento della Dante nel muovere i corpi in scena cede il passo a un’eccessiva fiducia nel fascino dell’ambientazione e delle musiche, mettendo in luce una generale debolezza nella drammaturgia. La scelta forte di rendere Medea madre di un solo figlio maschio, rinnovato accenno a questioni di genere e di potere già esplorate nel teatro di questa artista, non basta a rendere fluido il passaggio tra un materiale più puro – quello che proviene dall’attore, dalla sua biografia e dalla sua immaginazione – e il linguaggio tragico, che pure conterrebbe in sé l’ingrediente per far detonare la potenza poetica.

teatrocritica.net






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