Di Carlo Mazzacurati alla fine rimarranno un pugno di film, la tenerezza nelle memorie degli amici, il sorriso franco e la grazia naturale da ex giocatore di rugby. Rimarrà la poetica solitaria di un veneto terragno, tanto legato alla memoria delle radici quanto cittadino del mondo per merito dei suoi film, perle staccate di un solo percorso interiore, un sentiero sottile tra tradizione e inventiva che ne fa un cineasta riconoscibile, appartato, inconfondibile.
Morto oggi dopo una lunga malattia, Mazzacurati era nato a Padova il 2 marzo del 1956 e l’ultimo ricordo che lo accompagna sarà l’interminabile applauso del pubblico del Torino Film Festival che lo scorso novembre salutava il Premio alla carriera attribuitogli in occasione dell’anteprima del suo ultimo lavoro, «La sedia della felicità». Quella sera Carlo non c’era, ancora impegnato in una battaglia per la vita e la dignità che da mesi non gli aveva però tolto ironia, buonumore, dolcezza. Ma avrà certo sentito che il pubblico, il «suo» pubblico applaudiva un’opera capace di riassumere con la leggerezza del tocco tutte le note del suo pentagramma d’autore: il realismo sociale attento alle trasformazioni del costume, la commedia d’umore e d’ironia, lo schizzo veloce di personaggi umanamente fragili, la poesia delle piccole cose.
Sono in fondo gli stessi elementi che lo avevano fatto immediatamente riconoscere quando, nel 1987, sbarco’ alla Mostra di Venezia con il suo primo lungometraggio (scritto con Franco Bernini) «Notte italiana» che immergeva in un abbacinante bianco e nero le tragicomiche storie di un «giallo» in salsa padana, pieno d’arguzia e di passione. Non faceva sconti alla realtà italiana e al suo lento corrompersi, Carlo Mazzacurati, ed è stata forse la sua etica severa (nascosta in una quieta bonomia) a renderlo immediatamente simpatico a Nanni Moretti che fu uno dei suoi pigmalioni insieme a Gabriele Salvatores che usò la sua sceneggiatura vincitrice al Premio Solinas per «Marrakech Express». Per Moretti produttore Mazzacurati aveva invece scritto la sceneggiatura di «Domani accadrà» che avrebbe poi diretto il suo «gemello» artistico degli esordi, Daniele Luchetti.
Figlio di un ingegnere, rampollo di una sobria borghesia padovana, Carlo Mazzacurati diventa adepto del cinema già al liceo, cresciuto a film invisibili e tesori di cineteca da Piero Tortolina, infaticabile animatore del cineclub «Cinema Uno». Poi il ragazzo «emigra» nella vicina Bologna, uno dei primi studenti del Dams, dove prende confidenza con gli «attrezzi del mestiere» e firma il suo esordio amatoriale «Vagabondi», girato con una cinepresa 16mm grazie ai soldi di una piccola eredità. Il film è bello, vince il primo premio alla rassegna milanese Filmmakers e viene scelto dalla distribuzione Gaumont per una circolazione di sala.
Purtroppo è il 1983 e la casa distributrice chiude la sua filiale italiana sicché il progetto resterà nel cassetto. Con la tenacia tranquilla del suo carattere, il futuro regista scende a Roma, si fa le ossa come sceneggiatore (firma anche il copione di un titolo cult come «Fracchia contro Dracula») e poi passa dietro la macchina da presa. Da allora non ha mai avuto seri problemi per realizzare le storie che aveva a cuore: poche, distillate con scelte non in sintonia con le mode del momento, ma sempre amatissime dalla critica e in particolare dalla Mostra di Venezia dove era di casa. Arrivano «Il prete bello» (dal romanzo di Parise) nel 1989, «Un’altra vita» (1992), «Il toro» che nel 1994 vince il premio della Giuria alla Mostra del cinema. Ritornerà con uno dei suoi film più personali e significativi («Vesna va veloce», 1996), «L’estate di Davide» (1998) e «La lingua del santo» (2000). Sono gli anni in cui proverà a confrontarsi più direttamente con le fonti della commedia all’italiana, fino a realizzare il remake di un classico come «A cavallo della tigre» nel 2002.
Ma la sua vena segreta è meno smagliante, meno «facile»: si realizza nel documentario (memorabili i suoi ritratti di «grandi vecchi» della cultura veneta come Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto, Luigi Meneghello) o nel cinema di personaggi, racconto dei vinti della Storia come nel bellissimo «La giusta distanza» premiato alla Festa di Roma nel 2007. Tra l’ultimo racconto inventato (il surreale «La passione» del 2010) e l’ancora inedito «La sedia della felicità» passano quattro anni. Ma Mazzacurati, che pure è tornato a vivere nella sua città natale confessando una certa allergia a Cinecittà e dintorni, è tutto fuorché pigro in quello stesso periodo: dirige due documentari, dà vita insieme ad Angelo Barbagallo al suo unico titolo da produttore, «The One Man Beatles» di Cosimo Messeri, assume la presidenza della Fondazione Museo del Cinema di Bologna, sospinge fino alla realizzazione il documentario in memoria dell’amico e maestro Piero Tortolina.
Il suo volto non era molto conosciuto, come capita spesso ai registi, ma per tre volte apparve come attore nei film di Nanni Moretti: «Palombella rossa», «Caro diario», «Il caimano». Per chi non lo ricorda si può dire che era alto, biondo, elegante nella sua ostentata goffaggine, gentile e quieto come i suoi maestri, Andrea Zanzotto su tutti. Era un italiano come forse non ne nascono più.
La Stampa