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Les Amants du Pont-Neuf > Leos Carax

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Storia di due vagabondi che si amano tragicamente sullo sfondo parigino del Pont-Neuf, soli e perduti, tra l’andirivieni febbrile delle folle borghesi. Il cinema di Leos Carax è un inarrestabile fluire di barocchismi estetici, arte immaginifica più che narrativa, in cui la surrealtà magmatica di idee in movimento, si confonde e si intreccia a logiche filmiche ossimoriche e antinomie vere o presunte. Da Strangulation blues (1980) al capolavoro Holy Motors (2012), la personalità eccentrica del regista si dibatte tra il voler fare cinema e l’ambizione prometeica di elevare ogni proprio film a oggetto culturale e di culto. La frattura insanabile, se da una parte lo colloca all’interno dell’elitarismo intellettuale transalpino, dall’altra circoscrive un percorso che, partendo da finalità eidetiche, ostenta la rappresentazione più esasperata dell’art for art, con maniera e compiaciuto gusto per forme stilizzate che cercano di intrappolare nevrosi e contraddizioni dei personaggi. Si tratta di una studiata trasfigurazione mimetica della società e del mondo, smaterializzazione meticolosa dell’idea in sé nell’immaginario estetico e stilistico della cinefilia erudita: il concetto che vuole rappresentare è introiettato, quasi fagocitato dalla componente visionaria e surreale dei suoi film, reificato da una serie di accorgimenti formali che mirano, più che all’esegesi, alla finalità attrattiva e mostrativa che apparteneva alle derive del cinema degli inizi. È cinema astratto ma viscerale, che rompe con la convenzionalità della storia in sé e ambisce all’attrazione pura, alla visualizzazione a tratti nevrotica e a tratti controllata dell’individuo in primis e poi della società. Difficile analizzarlo, sarebbe meglio perdervisi senza appigli. Sarebbe altresì fuorviante insistere sull’esistenzialismo tout court, forse è più opportuno cercare di scomporre le sue opere applicandovi qualche dettame di estetica filmica, o appigliarsi alle catalogazioni intellettuali che lo definiscono ultimo erede di Godard e più in generale, forse, iniziatore di una Troisième vague cinematografica in lotta con le tradizionali sintassi filmografie.

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Dopo Mauvais Sang (Rosso sangue, 1986), indubbiamente il suo film più personale, capace di restituire un universo convulsivo in cui le tonalità thriller-noir si annientano in un parossismo di parole e figure che omaggiano fumetti e caricature alla Buster Keaton, riesce a ottenere l’autorizzazione per girare la vicenda de Les amants sul Pont-Neuf tra luglio e agosto del 1989. La lavorazione è travagliata, soprattutto a causa di un brutto incidente capitato al suo attore feticcio Denis Lavant e per via dei numerosi ritardi in fase di post-produzione. Gli incassi al botteghino furono relativamente bassi, per quello che all’epoca, poteva essere considerato il più grande blockbuster d’autore francese costato quasi 80 milioni di franchi.

Les amants du Pont-Neuf è un’opera di difficile catalogazione che non accetta mezze misure: la si può amare o odiare, può irritare o affascinare senza riserve. Denis Lavant è Alex, un senzatetto che si arrabatta tra piccoli furti e spettacoli di strada, finché la sua vita viene sconvolta dall’incontro con Michéle (Juliette Binoche), studentessa di Belle Arti che si improvvisa impenitente clochard, con un occhio bendato a causa di una malattia. I due si arrangiano come possono per sopravvivere, narcotizzati dagli intrugli del vecchio barbone e mentore Hans, si amano con impeto tragico, si rincorrono e si cercano fino al giorno in cui, dopo le ripetute ricerche dei parenti, Michéle torna a casa e Alex viene arrestato a causa di un omicidio involontario. Ma le loro vite tormentate sono destinate a incrociarsi ancora per l’ultima volta.

Carax, innovatore e sperimentatore, gioca con modelli cinematografici vecchi o coevi (derive del cinema muto, performance caricaturali e funamboliche dell’attore, stilizzazioni fumettistiche, stilemi drammaturgici con ossessioni e metafore sociali che risalgono alla poetica crudele di E.V. Stroheim), li plasma in un insieme filmico di forte impatto visivo con prevalenza di una messa in scena tra il tragico e il grottesco, valorizzata quasi esclusivamente dalle prestazioni attoriali che assorbono la narrazione in virtù di una esasperata esaltazione divistica e visionaria. Si crea un gioco sottile, a volte sadico, tra il Carax burattinaio e l’istrionica marionetta Lavant, acrobata circense, artista di strada spiantato con espressione dolente e corrugata, maschera tragica ai margini della società e abbrutita dalla miseria che lo circonda. Il regista, attraverso l’autoreferenzialità del suo protagonista, riflette sul ruolo universale dell’attore nel cinema e sulla moltiplicazione delle caricature che abitano il mondo delle divergenze culturali e delle diverse classi sociali. Maschera in una processione di maschere.

Similmente in Holy Motors (2012), film della consacrazione, Denis Lavant, camuffandosi di volta in volta in: vecchia mendicante, attore alle prese con la performance capture, serial killer spietato, padre di un’adolescente, penetra, come l’Everyman letterario all’interno delle vite degli altri e ne svela profondi drammi e finzioni reali. Acuta analisi sul camaleontismo dell’attore, sui flâneur cittadini che ripetono sempre gli stessi gesti e le stesse parole, sul corteo di marionette che popolano le città. In Les Amants du Pont-Neuf, la storia d’amore con una laconica J. Binoche, fatta di incontri occasionali e di una lunga parentesi in cui i due cercano di sopravvivere insieme al degrado, non può redimere Alex, perché egli ha già scelto di rimanere eterno protagonista del pauperistico vaudeville cittadino, mentre il dissidio di Michéle la porta a ritrovare la strada di casa, quella della normalità. Il cinema di Carax è, soprattutto in questo caso, visione surreale continua e mai estemporanea, ma anche realismo drammaturgico, una danza conturbata in cui le acrobazie dei gesti e la vanità delle parole si rincorrono senza sosta e dove la rappresentazione dell’essenza ultima della società e del cinema elimina il normalizzato spazio didascalico legato alla storia: su una sceneggiatura sbilenca si costituisce la ridefinizione di un nuovo culto per il caratterismo attoriale e si costruisce un immaginario anti-narrativo su cui imbastire una cinica deformazione della società contemporanea partendo dall’individuo. Attraverso l’ossessione continua di voler mostrare il disagio e l’abiezione di due anime sole, consumata in un decadente romanticismo dal sapore amaro, il film guida lo spettatore all’interno di uno spazio senza tempo, il Pont-Neuf dei clochard e dei benpensanti, mentre la fotografia di Jean Yves Escoffier, nei primi piani così come in quelli lunghi, trasfigura l’umore nero di Alex in ogni suo gesto, in ogni azione nervosa e isterica, facendolo assurgere a figura drammatica e pantomimica. Guardare un film di Leos Carax è come osservare le moltiplicazioni di apparenze prodotte da una lanterna magica: c’è chi si perde e chi rimane ipnotizzato da caleidoscopiche fascinazioni visive, ma di sicuro non può lasciare indifferenti. •

Vincenzo Palermo

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